martedì 27 luglio 2010

Sayyed

“Pronto!”
“Pronto, Sinior Carmen. Sayyed è con te. Mi ricorda? Sayyed Sayyed Sayyed di Zagazig! Sayyed, mi ricorda? Come stai, Sinior? El-hamdu lillah?”
“Ciao Sayyed, sì, sì, mi ricordo di te… certo! Ho il tuo numero registrato sul cellulare”.
“Ezzayyak, ya Sinior?”
“Sto bene, Sayyed! El-hamdu lillah”.
“Kullu tamam? Bene, ya Sinior Carmina?”
“Sì, sì, abbastanza!”
“We eh el-akhbar?”
“Niente, tutto ok. Normale, Sayyed”.
“Tamam, ya’ni?”
“Perfetto! Ottimo! Non c’è problema! Fantastico”
“El-hamdu lillah, ya Sinior Carmiin”.
Taglio corto: “Che cosa vuoi? (Apro parentesi: può sembrare brusco chiedere a bruciapelo che cosa vuoi? a una persona che ti chiama e ti incensa con dieci minuti di salamelecchi. Ma in Egitto le sorelle Bandiera della telefonia faraonica (Vodafone, Ittisalat e Mobinil) campano sulle parole inutili che gli egiziani si scambiano all’inizio di ogni conversazione telefonica. Ammesso che la conversazione telefonica abbia un senso e un messaggio. Chiudo parentesi).
“Sinior Carmine (finalmente mi ha chiamato col mio vero nome!!!), io martedì non posso faccio esame alle 5”.
“Sayyed, tu non sei in classe con me, devi parlare con il tuo insegnante! Chi è il tuo insegnante?”
“Signora Laura (Laura ha 25 anni) ma non ho suo telefono”.
Silenzio.
“Senti, Sayyed, io non posso darti il numero di Laura ma posso chiamarla e dirle che non potrai fare l’esame. (Dubito che abbia capito ma non ho ancora ideato nessuna tecnica perché gli studenti possano interpretare disegni e mimo per telefono). Glielo ripeto per essere sicuri: “Io chiamo Laura (soggetto+verbo+oggetto comprensibile anche per un indigeno dell’Australia che non ha mai visto un italiano, nemmeno in TV) e poi io chiamo te (la difficoltà aumenta del 10 % ma se quell’indigeno ha un minimo di intelligenza, anche questa è fatta!).
“Sì, sì, sì ma io martedì non posso faccio esame alle 5”.
“Eh, lo so, me lo hai detto, habibi (habibi qui vuol dire coglione) ma Laura ora è a casa. Io telefono a Laura e poi telefono a te un’altra volta. (Un insegnante di italiano dovrebbe usare sempre un italiano parlato dalla maggioranza degli italiani ma a volte è costretto ad usare anche quelle espressioni che alcune mamme si ostinano a ripetere ai neonati di 3 mesi).
“Sì, sì, grazie, professoro (l’idea della terminazione vocalica -e che può definire anche un maschile può risultare una forzatura per alcuni machi egiziani. L’uomo è uomo quindi o con la ‘o’ o niente). Ma quando posso faccio esame?”
Sono dell’opinione che chi ha un quoziente intellettivo inferiore a uno non può seguire un corso di lingua!
“Non lo so, Sayyed. Parlo con Laura e poi hattasel bik (glielo dico in arabo così evitiamo malintesi).
Con la freddezza di Bill Gates mi fa: “Mia moglie è morta e qui a Zagazig….”
Lo interrompo, sconvolto: “è morta? Ma è terribile? Oh mio Dio, poverina. Ma hai bisogno di qualcosa? Com’è successo? E tu come stai? Posso fare qualcosa per te?” (Mi sbuca dalla bocca un francescano: lo guardo spiaccicarsi sul display del cellulare mentre cerca di infiltrarsi tra i buchi del microfono. Lo acchiappo per il cordone:
Tu stai bene? (e calmo i battiti del mio cuore).
“Sì, sì, tutto bene solo che non posso faccio esame”.
Il francescano sviene, scivola sulla tastiera e cade sul pavimento. Tramortito.
“Sayyed, ma….. è morta tua moglie e tu pensi all’esame?”.
“Sì, sì… per me esame è molto importante. (Premessa: Sayyed ha seguito il primo livello con me e superato senza grandi onori l’esame. Dopodiché non so quante volte si è iscritto al secondo livello dove è rimasto in saecoli saeculorum).
Qui a Zagazig i parenti venio a casa martedì perché mia moglia (per molti, i più conservatori, solo la vocale –a indica il femminile!) morta. Io non posso venio al Cairo per faccio esame”.
“Sayyed, non ti preoccupare per l’esame, puoi fare un test di livello. Non ci pensare ora. Insomma perdere una moglie è ben più grave, no?”.
“Non posso venio martedì e voglio faccio esame scritto e orale insiema (anche insieme è femminile). Cosa posso faccio?”
La freddezza con cui contratta la data dell’esame mi sconvolge. Indago:
“Com’è successo Sayyed?”
“Eh?”
“Come è morta? Perché è morta? Quando è morta? Da quanto tempo è morta? (ho usato la metà degli interrogativi del livello A1 del Quadro Comune di Riferimento sperando di centrare il bersaglio).
“Difficile in italiano (beh, la morte è difficile in tutte le lingue del mondo, credo!). Lava vestiti in bagno e filo lampada cade in acqua e morta (bagno, corrente, acqua, morta. Possibile ma strano). Posso faccio esame giovedì. Scritto e orale?”.
“E il bambino come sta? (Madre Teresa di Calcutta mi fa un baffo!)”
“Bambino ok. Madre morta. Io bene. Yalla….El-hamdu lillah”.
Non ho parole. Penso a quella donna velata, costretta a non lavorare fuori casa per difendere il suo onore. In campagna una donna rispettabile non lavora ma accudisce i figli come il pastore le sue pecore mentre il marito, il famigerato Sayyed, ha lavorato per anni a Sharm El-Sheikh, ha sposato con un contratto temporaneo un’olandese e si è scopato almeno un girone di straniere (il girone delle vecchie in calore).
“Ma non ti dispiace?”
“Che cosa faccio? Dio vuole così. El-hamdu lillah” risponde freddo.
“Mi dispiace, Sayyed! Davvero! Posso fare qualcosa per te?”
“Io non posso faccio esame martedì”.
Finalmente il miracolo: la moglie non è morta e probabilmente Sayyed non è nemmeno sposato. È solo una scusa per non venire due volte al Cairo.
“Ok. Parlo con Laura e poi ti chiamo”.
“Per favore, Sinior Carmen. (Beh, questo maschilismo forzato proprio non lo digerisco.)”.
“Faccio il possibile, habibi (habibi vuol dire stronzo-che-mi-hai-fatto-prendere-un-colpo-senza-motivo).
“Bliiiiiiiz Sinior. Bliiiiiiz (ci prova con l’unica parola d’inglese che conosce).
“Tranquillo, Sayyed. Non ti preoccupare. Yalla ci sentiamo”.
“Meshi, Sinior. Shoukran. Aspetto telefono”.
“Sì, sì, aspetta aspetta…..Ciao Sayyed”.
“Ma’a as-salama ya ustaz. Grazie. Merci. Shoukran”.
Riattacco.
Riattacco e penso: se per l’esame del secondo livello si è giocato già la carta della moglie morta, che succederà quando sarà all’undicesimo livello? 

venerdì 30 aprile 2010

Far finta di compiere 38 anni

Compiere trentotto anni significa camminare sul cornicione di un palazzo dell’Ottocento con scarpe dorate e una parrucca Luigi XIV.  C’è silenzio così in alto, il suono delle macchine è lontano e i tacchi delle donne ricordano solo la punta della mia spada. Lucida brilla al sole, pronta a fendere la noia e la paura, la solitudine e l’attesa. Compiere 38 anni sognando di stare sul cornicione di un palazzo ottocentesco con una spada assassina è il dono di una serata pacata e di un animo inquieto. Compio 38 oggi fingendo di essere una spada che taglia il tempo su un cornicione solitario di via Montenapoleone. 

giovedì 29 aprile 2010

Tempi di silicone

Ieri sono stato invitato su Canale 5 per partecipare a un programma di approfondimento. Il tema della puntata era: è giusto gonfiare i palloncini senza farli scoppiare o è meglio gonfiarli e farli scoppiare?
Invitati insieme a me c’erano Mario Muzi, psicoanalista e autore di diversi saggi su argomenti relativi a fiato, alitosi e conseguenze sul lattice, Sara Psulinger, la modella tedesca che ha subito il primo intervento di mastoplastica per l’aumento del seno con protesi formate da palloncini gonfiati, Giulia Spercola, vincitrice del Grande Fratello 48, Michele Micino e Rosa Canesca, prima coppia che si è unita in matrimonio su una mongolfiera e in collegamento da Roma il deputato della Lega, Salvatore Ignoto.
Nel corso della discussione la presentatrice mi ha chiesto: “Sposerebbe una donna con protesi di palloncini?”
Ho risposto di sì, naturalmente, che mi sarei divertito a portare a spasso la mia lingua su capezzoli plasticosi per poi gonfiarli in base ai miei desideri. Ho confessato che mi piacciono le tette di varie taglie e ho concluso dicendo che i palloncini in lattice sono la nuova frontiera del futuro.
Stamattina dopo la mia dichiarazione leggevo sulla prima pagina della rivista “D in Uomo”: “La famosa cantante Orsula ritrovata priva di vita in una stanza d’albergo. Su un biglietto una frase: “Non posso continuare a vivere con le mie protesi di silicone. Le lascio a voi, fatene quello che volete. Io volo in cielo con due palloncini rosa. Orsula”.
Ho piegato il giornale, l’ho lasciato sul sedile del treno e ho aperto il finestrino. In sottofondo “La donna pallone”. 

mercoledì 28 aprile 2010

Non leggere fa male


Butta giù la porta violentemente ed entra. Non parla e mi spinge contro il muro. Le dita delle sue mani tra labbra, denti e lingua. La voce mi rimbalza in gola e si rituffa nello stomaco. Mi strappa le braccia tirandomele dietro. “Bastardo” mi dice e mi colpisce su un fianco col ginocchio. Mi piego. Mi colpisce ancora e cado ai suoi piedi. Mi arrendo e lo lascio agguantare i lingotti d’oro dalla cassaforte. Poi li butta su un letto di 50.000 euro coricati in una borsa e mi dà un calcio sulla bocca. Tra lacrime e sangue vedo che estrae uno spray dalla tasca interna del giubbotto di pelle e scrive una parola sul muro del salone. Cerco di tirarmi su, di leggere la parola. Intravedo una erre. La testa pesa 50.000 chili. Mi trascino per una distanza che mi sembra infinita. Apro gli occhi e vedo una doppia ti. Non reggo la testa e mi scivola a terra. Sbatte e muoio su una parola non letta. 

giovedì 25 marzo 2010

Pornoshop II


Le stavo dentro per riempirla col mio desiderio. Andavo su e giù, su e giù, su e giù sulle sue alture vergini senza guardarla, senza nemmeno toccarla. Rasha era lì, immobile, insensibile ai miei colpi di bacino e al mio sudore liquido. Avevo atteso a lungo un letto e una moglie ma non avevo messo in conto la bravura delle prostitute. L’ultima si muoveva sinuosa nei miei occhi serrati mentre il corpo di Rasha la teneva legata, paralizzandola. Solo alla fine, con un guizzo quasi bestiale, il fantasma della prostituta è riuscita ad aggrapparsi al filo del mio orgasmo tirandolo ed io mi sono sciolto in sperma e solitudine, supino accanto a Rasha con gli occhi fissi sul soffitto della stanza, fredda come una bambola gonfiabile. 

mercoledì 24 marzo 2010

Pornoshop

Mohammed si muoveva addosso a me come un cane in calore. Le mani appoggiate sul materasso, disteso a coprirmi come una carta carbone: i miei occhi chiusi sentivano la sua ombra nera nella penombra della camera da letto. Rimanevo immobile ai colpi secchi del suo bacino: su e giù, su e giù, su e giù come la lama che da bambina mi aveva fatto piangere chilometri di lacrime. Ero lì, senza lacrime, a non provare nessun tipo di grazia: avevo atteso per anni il primo rapporto sessuale e ora, sotto di lui, ferma, a pregare Dio che godesse il prima possibile. Ho aperto gli occhi per un istante e ho visto il piacere sul viso e non nei suoi occhi serrati. Lui era dentro di me ed io distante litri e litri di mare dal suo sudore caldo.
Di colpo un gemito di piacere l’ha staccato dal mio corpo, come la lama che mi staccò il piacere tra i pianti di bambina. 
Stamattina Mohammed ha sposato una bambola gonfiabile.

sabato 20 marzo 2010

a Silvio


Apro il portone di casa e mi investe un sibilo di fischietti da arbitro. Di colpo mi ritrovo nella curva nord della grande Roma eppure sono solo le 11 di mattina ed io fuori per la rituale passeggiata del sabato: colazione al bar, giornale, mezz’ora di panchina, libreria, da Mario il fioraio e da Gino il pescivendolo.  Dall’uscio del portone osservo Piazza San Giovanni agghindata per un primo maggio albino: un mare di bandiere bianche, azzurro pallido e blu scuro, visi sorridenti e un palco con un simbolo gigante del Pdl. Chiamo Sara, penso, e le dico di affacciarsi alla finestra. Frugo nelle tasche alla ricerca del cellulare ma non lo trovo. Una mano mi afferra per il bavero e mi scaraventa nel fiume di persone rivolte verso il palco. Polpastrelli animosi premono sulle mie spalle e mi sento spinto da una forza diabolica, mentre foulard svolazzanti e cappellini col simbolo del Pdl in miniatura mi prudono gli occhi. Cerco di tornare indietro ma mi abbraccia uno striscione azzurro tenuto da decine di giovani ben vestiti che intonano l’inno di partito. Saraaa! strillo, sperando di vederla affacciata alla finestra che oramai è un puntino nel palazzo alle mie spalle. I fischi mi assordano, le bocche diventano caverne, il bastone di una bandiera s’intrufola tra le gambe e mi buca i pantaloni. Mi solletica l’ano, con violenza! Mi sento male! Un vecchio sdentato si avvicina e ride. Il bastone sale, lo sento dentro, anguillesco. Saraaaa! urlo, ma la folla m’inghiotte e la musica altissima canta Meno male che Silvio c’è! Il bastone sale, sale, mi buca le budella, si aggrappa alla trachea. Saraaaa! Meno male che Silvio c’èèèèèèè! Un dolore atroce mi sconquassa la carne, sento la pelle del viso tirarsi, Silvio c’èèèèè, una bandana mi cattura la testa, i capelli si tingono di henna, ho i gemelli ai polsini, Saraaaaaa!!!!! Il bastone mi spacca i denti da dentro, meno male che Silvio c’èèèèèèè……noooooo….. mi strappa le labbra e il sangue mi sgorga dal culo, saraaaaaa……..c’èèèèèèèè! Mi sveglio! Sgrano gli occhi e scorgo Sara rannicchiarsi sotto il lenzuolo. Mi tocco la bocca, i denti sono interi. Anche oggi, da quando Silvio c’è, ringrazio il cielo di non vivere in Italia. 

martedì 16 marzo 2010

Pugilato

Mi sono fermato all’incrocio tra via Abd Al-‘Aziz Al-Sa‘ud e una strada che non mi ha mai voluto dire il suo nome. Sono come al solito in ritardo: ieri sera mi sono appisolato davanti alla tv tra le 9 e le 10 e da lì in poi mi sono trasformato in radar fino alle tre di mattina. Con gli occhi ancora appannati dalla luce accecante del sole, respiro l’odore fresco dello smog e mi abbandono al carillon dalle macchine che mi sfrecciano davanti, da sinistra verso destra. Chiederei volentieri un passaggio a quel povero asinello che slitta sull’asfalto ma non è chic arrivare a Zamalek in carretto. Così ho fermato un taxi bianco: sono i miei preferiti perché hanno il tassametro e non rischio di litigare già di buon’ora. Salgo e senza sorridere chiedo affermativo: “Zamalek?!”. L’autista farfuglia insha’allah, mi spia dallo specchietto retrovisore e, più abile di un prestigiatore da strada, alza il volume dell’autoradio. Mi perfora le orecchie la voce di uno sheikh musulmano che salmodia chissà quale sura del Corano. Gli occhi si spannano e le orecchie si raddrizzano. Non mi va di farmi violentare di mattina presto, ho la carne morbida e il sapore delle lenzuola ancora troppo fresco. Mi obbligo a chiedergli di abbassare il volume e lui lo fa: da 22 passa a 20. E’ ancora troppo forte per me e penso che forse sia il caso di scendere. Mi aggrappo ai manici della mia borsa ma la zavorra mi tiene saldo al sedile: non ce la faccio a muovere le chiappe. Rimango e tossisco con forza, ripetutamente. Quella tosse artificiale che chiede attenzione. Lui non me ne dà. Nemmeno mi spia. Allora apro la borsa e afferro l’ipod. Lo accendo. Con la saliva grondante,  corro alla ricerca di quella traccia. “Ma dove l’ho messa, diavolo!?” Erre, Radiohead, Rhonda Byrne, Rino Gaetano, Sacha Distel, Sade....eccola! Clicco ancora. Ok. Alzo il volume. Play. La voce che recita il salmo fuoriesce scandalosamente alta, sbatte contro i vetri, arriva allo specchietto retrovisore e si riflette perforando le orecchie del tassista. Mi guarda per la prima volta, con tutti e due gli occhi. Rallenta e si guarda intorno. Lo fisso, ci fissiamo. La voce dello sheikh si scontra con la voce del prete. Forti, divini. Entrambi. Il tassista si avvicina alle corde del ring, prepara il destro e alza il volume fino a 34. Lo sheikh sovrasta il prete, un allah domina dio mentre il mio pollice trema come quello del pilota che sganciò la bomba di Hiroshima. Mi restano ancora 10 millimetri di volume. Alzo? Non alzo? Alzo! Il salmo salta, il tassista frena. Si gira, mi guarda. Spegne l’autoradio e ingrana la prima. Ripartiamo mentre io clicco su pause. Cerco un’altra traccia... Mozart. Dal ponte di Manial a Zamalek ascoltiamo  musica classica in religioso silenzio. Allah e Dio hanno accompagnato il nostro cammino fino a quando ho pagato, salutato, sorriso e stretto la mano al tassista. Scendendo ha riacceso l’autoradio e ha alzato il volume al massimo. Mi ha fatto l’occhiolino ed ha sgommato. A dieci metri un ingorgo. Si è fermato mentre io mi sono incamminato in una traversa di via Gezira. Da lontano lo sheikh mi chiamava ma io ho messo le cuffie ed ho ripreso a dormire. 

domenica 14 marzo 2010

Profumo di Colonia

Le lacrime mi accecano e non vedo più la finestra che guarda la strada. Sulle tende color crema mi rifletto giovane, all’età di nove anni, eccitato nella otto e cinquanta blu di mio padre, arrivato a Colonia dopo ore lunghissime di viaggio. Non mi ricordo già più del paesino ai piedi del Monte Carmelo quando ricomincio a vivere e giocare con bambini dai capelli quasi bianchi che masticano una lingua aspra. Mi vesto di una vita nuova nel buio del mio studio e divento un ragazzo che non ama la scuola, adora le macchine e corre. Corre con le scarpe da ginnastica sempre pulite perché gli sembra di volare e di poter arrivare prima verso una vita normale. Dopo le medie e le superiori decide di lavorare come giardiniere perché dalle piante assorbe la linfa d’amore che poi trasmette a sua moglie e ai suoi figli. Una lacrima salta giù su una guancia e col braccio destro evito la frana liquida. Sul braccio rimane attaccata la mia vita tedesca e comincio a respirare ancora un’altra vita. Dopo il liceo scientifico, faccio medicina e vado in giro per le chiese d’Italia con in mio gruppo parrocchiale cantando Allelluja e invocando il Padre Nostro. Poi mi specializzo in ginecologia e mi innamoro di Giulia che mi regala due splendidi figli. Marcello che ora fa l’asilo e Mirka che fa la seconda elementare. Nel fine settimana andiamo in campagna, a casa di mia madre, che puntualmente nasconde nelle mani dei bambini due biglietti da cinque euro accompagnandoli con un immancabile “Compratevi un quaderno o un gelato, figli miei!”.
Qualche vita fa ero così, prima di pulirmi le lacrime con il braccio destro e prima che le tende ricominciassero a colorarsi di crema. In questa vita, invece, scrivo.

mercoledì 10 marzo 2010

Quella sera

fluttuava nella penombra del suo appartamento sul Nilo. Galleggiava sull’acqua del fiume, riflessa oltre il vetro del balcone mentre l’aria gli scorreva nelle vene. I sorrisi si scollavano lentamente dalle labbra e si aggrappavano come muschio alle pareti dei mobili. Stelle marine brillavano nei suoi occhi e cavallucci di gioia gli sfioravano la pelle, solleticandola. Volava! Volava nell’acqua con le emozioni in subbuglio senza la gravità dei pensieri. Sbatteva contro le sedie, spostava le lampade verso il soffitto senza paura: sopra la testa una candela bruciacchiata, cuscini rossi e blu e libri a forma di uccelli. Scansò la lampada a palla, accarezzò una pianta e col piede sinistro s’impiglio in una catenella d’argento. Tirò. Tirò. Il tappo venne su e l’acqua colò come un mulinello inferocito. Bastò un secondo di silenzio per trovarsi nudo e solo sulla grata dei suoi giorni normali.

domenica 7 marzo 2010

U come Dizionario

Untuoso agg. [der. di unto] 1. Impregnato, ricoperto di unto o di untume. Immerso in parole dolci e umide di pianto e infine scolato in una vasca di aria fredda e ghiaccio. Es.: Era carina fino a diventare, improvvisamente, untuosa. Non ha risposto più ai messaggi. 2. Che ha l’aspetto e alcune caratteristiche dei grassi. Es.: è tanto bello ma unto come un maiale. Un porco, oserei dire! Anzi peggio: con lui non si fanno salsicce!

Unzione [dal lat. Unctio-onis, der. di ungere , part. pass. unctus] 1. L’azione di ungere e il fatto di ungersi di venire unto con oli o con altre sostanze grasse, come le bugie, le ipocrisie, i finti sorrisi, le lacrime da coccodrillo e i falsi complimenti. Es.: Sapeva che quella sarebbe stata l’ultima cena, l’estrema unzione di una storia mai iniziata e già finita. 2. In varie religioni, u. rituale, praticata a persone (e anche ad animali) in riti con fini diversi, sacrificali, funebri, di consacrazione ecc. Es.: Quella sera si stava sacrificando anima e corpo in quel letto sconosciuto e freddo, tra gemiti e olezzi di vomito. Si lasciava ungere la pelle dalla pelle, ignaro che quell’unto sarebbe stato fiele nei giorni a venire. 3. Untuosità; servilismo ipocrita. Es.: Gli aveva chiesto di abbracciarla. Lui, stupido, si era stretto al niente, annullandosi.

Uòmo (ant. o pop. òmo) s. m. [lat. Homo hominis] (pl. uomini) 1.

La pagina del dizionario presenta uno strappo esattamente sulla definizione di “uomo”; una voragine nera che conduce direttamente alla parola “zero”.

venerdì 5 marzo 2010

La dentiera

si scollava dal palato con la pigrizia di un’onda al tramonto mentre Mohammed la penetrava con la formalità di un tedesco in cravatta. Il suo corpo scuro altalenava nei tiepidi umori di Giulia, aggrappata alla vita con le sue mani rugose smaltate di rosso. Era lì, a Sharm Al-Sheikh, alla ricerca di una resurrezione che potesse regalarle ancora qualche sussulto. 62 anni, Lazzaro più che mai in terra d’Egitto, questa volta aveva trovato il vero amore. Mohammed, 27 anni, giovane istruttore di immersione le raccontava dei fondali marini e dipingeva il suo deserto con tutti i colori dei pesci del Mar Rosso. Lei li pescava con la rete delle sue banconote dorate. Nel tentativo di mostrare meno dei suoi anni, Giulia non si accorse del piano che lui non le aveva mai rivelato: partire per l’Italia. Continuava a muoversi sotto i colpi di quell’uomo e non riconosceva la bestia che addentava la sua carne flaccida. Mohammed e Giulia vennero. In Italia. Vissero insieme per qualche mese; poi, un giorno, Mohammed si prese le chiavi di casa e l’accompagnò al cimitero.

giovedì 4 marzo 2010

Di-mendico

Da più di un mese quel letto si era trasformato in una distesa di chiodi. Da quando Sonia si era dissolta nell’inquinamento, le spine dell’abbandono gli pungevano la pelle, la perforavano, la tiravano fino a strappargliela. Un dolore secco e tagliente gli rubava i giorni e il sonno e non sapeva respirare. Alle nove di giovedì sera si tuffò nel marasma delle strade del Cairo e accompagnò il fermo immagine di Sonia in un pub finto europeo. Lo ripose nel guardaroba e cominciò a bere. Un whisky e un rock, una tequila e una danza del ventre, una decina di birre e una pista per le sue gambe sciolte. Bastò uno sguardo ad avvicinare Ladi a Marta. Si strillarono i nomi nelle orecchie e si parlarono con gli occhi. Sonia sgomitava tra le giacche al buio del guardaroba mentre Marta faceva le fusa all’ombra di Ladi. Lui, quello vero, stava immobile al centro della pista sbirciando le braccia che s’intrecciavano e gli umori che si cercavano. Marta afferrò borsa e foulard e uscì dal locale tirandolo per una mano. Montarono su una Mercedes e si fecero corpo unico sul letto di lei. Lingua contro lingua e sesso nel sesso. Violento. Sconsolato. Lo aveva cercato per riempire la sua solitudine mentre Ladi l’aveva sovrapposta con l’immagine di Sonia. Le fece male, la morse, toccò il cielo per un istante e poi ritornò sottoterra. Ricoperto di fanghiglia e pietruzze si rivestì. Solo. Sul comodino un diplomatico e un bambino facevano da cornice a una Marta sorridente e fiera. Si rivestì e uscì. L’aria fresca del Nilo solleticava Zamalek e Ladi s’incamminò verso il ponte. Il vento spingeva i pensieri lontano ma il ricordo di Sonia rimbalzava schiaffeggiando la sua tranquillità. A fatica raggiunse il ponte: le luci delle due rive punteggiavano il letto del fiume, barche illuminate con musica ad alto volume scarrozzavano orde di egiziani poveri, in lontananza il nero dove Ladi desiderò vivere. Si fermò appoggiandosi con i gomiti sul parapetto e una voce di uomo in inglese lo riportò a terra: “Welcome in Egypt!”. Si girò e fu colpito dalla bellezza di Amir, un giovane Tutankhamon, ritornato in vita per donargli ancora vita. Parlarono incamminandosi verso il centro e si ritrovarono, travolti come da un’onda, sul tappeto del salone: il corpo dell’uno intrecciato a quello dell’altro. Sonia osservava Ladi e Amir respirava Marta nel suo appartamento disadorno, ricco di cimeli e di rarità. Il seme di Amir cancellò il profumo di Marta e soffocò le grida di Sonia. Ladi rimase a terra, senza vita, perso nel nero che aveva desiderato. Sentì di essere disteso a due passi dal mare, in silenzio, nel sole spento. Intorno a lui acqua, aria e pace. Per quella sera era riuscito a distruggere il ricordo di Sonia e aveva allontanato i profumi di Marta e Amir.

La mattina accese il sole con l’interruttore del salone e si ritrovò nudo sul tappeto. Sonia lo guardava da un angolo della sua memoria, Marta a telefono col marito in missione e Amir lontano, con tutto quello che le braccia di un giovane egiziano possono rubare.

domenica 28 febbraio 2010

L'amore è

La zia lo aveva elogiato: gran lavoratore, di buona famiglia, un bell’appartamento in un quartiere residenziale del Cairo, mai sposato. La madre l’aveva accettato di buon grado, spinta dal bisogno di diventare nonna. Il padre, dubbioso, era convinto di dover porre fine all’impiccio: Rania, 25 anni, doveva sposarsi! L’ultimo venerdì di marzo avrebbe cullato sul suo grembo la visita del giovane Ahmad accompagnato dai genitori, con il cuore pulsante e una proposta caricata a salve. Rania si era opposta sfoderando l’arma degli studi superiori, di un dottorato e di una vita all’estero ma il padre l’aveva obbligata a indossare l’abito meno appariscente, il velo più decoroso, il comportamento più mansueto ed educato. Ahmad arrivò con le mani piene di dolci e un sorriso impacciato. Si sedettero in soggiorno su bollicine di bibite gassate e zucchero di dolci al miele. Parlarono delle ultime piogge, del caldo improvviso, del governo malato e del traffico infernale. Rania guardò Ahmad che masticava con la bocca aperta e si convinse che non avrebbe condiviso mai nessun letto con quell’estraneo. Lui, invece, 42 anni, sbavava all’idea di baciare quelle labbra rosa e di toccare quella pelle di pesca. Il padre propose il giorno e l’ora del fidanzamento, la dote e le condizioni del contratto. Ahmad accettò con un secco sì, rapito, con lo sguardo fisso sulle caviglie di Rania. Lei si sentì soffocata, si voltò e vide un “Grazie a Dio” a lettere d’oro appeso al muro. Si aggrappò violentemente alla gonna e la tirò su: accavallò le gambe mostrandole agli ospiti. Il padre le lanciò occhiate di fuoco ma lei sbottò: “Non posso sposarti, Ahmad! Io non sono più vergine!”. Ahmad inghiottì il boccone e si voltò verso il padre. “Bene, signori. Il fidanzamento è confermato per giovedì 17 aprile. Venerdì prossimo siete tutti a cena da noi!”. Si alzarono, salutarono cordialmente ed uscirono. Rania rimase lì, immobile sulla sedia. Non parlò fino al 16 aprile. Il 17 morì sposandosi.

venerdì 26 febbraio 2010

Leonardo Due

È nato il 2.2.1972 alle due meno venti di notte e il due è la sua ossessione. Secondo di quattro figli, abita al numero due di via Venti Settembre, la striscia quotidiana del suo reality preferito inizia alle due di ogni pomeriggio, fa due lavori, ha due fidanzate, ha due amici intimi e nelle gare arriva sempre secondo. Che sia tennis o calcio, ping pong o domino, ha sempre qualcuno davanti. Negli anni ha visto migliaia di spalle: solide, mollicce, appesantite, gobbe; superbe, intoccabili come una Monna Lisa al Louvre.

Quel mattino si svegliò alle cinque e venti: era il due aprile 2002. Bevve due sorsi d’acqua e si riaddormentò. Di buon’ora annodò la cravatta intorno al collo, afferrò il passaporto e il CV e si recò all’appuntamento in una grossa compagnia turistica. Aspettò una ventina di minuti e poi fu chiamato dal segretario del direttore. Entrò nell’ufficio e si sedette su una delle due poltrone di fronte al grasso uomo in cravatta. Disse il nome e l’età e fu immediatamente bloccato. “Mi spiace, Signor Due! Abbiamo appena assunto un’altra persona. È arrivato secondo!”. Si alzò, immaginò le spalle smidollate del numero uno, afferrò il tagliacarte e lo infilò al petto del direttore di fronte. Si voltò incurante, serio, con due occhi fissi sulle sue spalle, sicuro di essere stato il primo ad aver sporcato di sangue quella lama d’argento!

giovedì 25 febbraio 2010

Sudo

La pioggia che scende è il sudore di un Dio che ama senza essere corrisposto. Annerisce la volta celeste del suo cielo, stringe i fiocchi di nuvole strizzandole amaramente, serra gli occhi e le ciglia sbattono nel vento sospeso. La pioggia scende. Dio suda.

È pericoloso cadere nella pozzanghera dell’amore.

Si perde la libertà di vivere. Si perde la rotta e tutte le strade portano pioggia.

lunedì 22 febbraio 2010

Autocontrollo

Ho deciso: cancello il suo numero dalla rubrica telefonica così non ho più la tentazione di mandare sms - mi dico. Scorro l’elenco Ab Ah Bar D, la barra rossa evidenzia il nome selezionandolo. Sul display in basso tre porte: opzioni/chiama/indietro. Escludo indietro: in una storia non si torna mai indietro, non c’è tempo per il pentimento o passi per il rimpianto. Escluso chiama, perchè non voglio rischiare di farmi tamburellare i timpani con un tu tu infinito. Passo ad opzioni. Premo e sciolgo un elenco di possibilità. Gli occhi visualizzano elimina scheda. Sul vecchio cellulare era elimina contatto. Stamattina il mio ego è deciso e ostinato. Sa quello che vuole e riconosce il colore del sole. Premo elimina. Il telefonino mi chiede: eliminare tutti i dettagli? Premo sì. Perentorio. La luce del sole non mi acceca. Tic! Non c’è più! Eliminato. Cancellato. Mi sento libero, liberato dall’ossessione. Sorrido incredulo e vincente. Blocco la tastiera senza rimorsi. Via! Lontano!

Lontano dai suoi sms salvati nella casella dei messaggi ricevuti.

Auto/con/vinco

Ho deciso: cancello il suo numero dalla rubrica telefonica così non ho più la tentazione di mandare sms - mi dico. Scorro l’elenco Ab Ah Bar D, la barra rossa evidenzia il nome selezionandolo. Sul display in basso tre porte: opzioni/chiama/indietro.

Escludo indietro: in una storia non si torna mai indietro, non c’è tempo per il pentimento o passi per il rimpianto. Escluso chiama, perchè non voglio rischiare di farmi tamburellare i timpani con un tu tu infinito.

Passo ad opzioni. Premo e sciolgo un elenco di possibilità. Gli occhi visualizzano elimina scheda. Sul vecchio cellulare era elimina contatto. Stamattina il mio ego è deciso e ostinato. Sa quello che vuole e riconosce il colore del sole. Premo elimina. Il telefonino mi chiede: eliminare tutti i dettagli? Premo sì. Perentorio. La luce del sole non mi acceca. Tic! Non c’è più! Eliminato. Cancellato.

Mi sento libero, liberato dall’ossessione. Sorrido incredulo e vincente. Blocco la tastiera senza rimorsi. Via! Lontano!

Lontano dai suoi sms salvati nella casella dei messaggi ricevuti.

venerdì 19 febbraio 2010

Trasposizioni

Mi sono fotocopiato il volto. Ho colorato le rughe con un rosa pallido e ho tracciato fili sottili di barba. Rosa bagnato sulle labbra, pori sdruciti sul naso. Ho poi incollato il foglio sul vetro del mio balcone e l’ho baciato sulla fronte.

Finalmente ho qualcuno da amare.

mercoledì 17 febbraio 2010

762... 761...760...

Il raffreddore è un uncino che si infila nelle narici e ti penetra come radici. Si duplica, si inerpica, vorticoso sulle pareti del naso e traccia rotte brulicanti, formicolose. L’uncino della narice destra è più forte, acido, vince la competizione e, appoggiando i piedi sui peli viscidi, giunge all’altezza dell’occhio. Lo brucia, il liquido evapora e si trasforma in lacrima, l’iride si sfalda a richiamar il contatto della mano. L’indice e il medio strofinano l’occhio, si bagnano mentre l’uncino sale dentro la fronte su per il cranio. Scoppia la testa mentre la palpebra stenta ad alzarsi, fuochi d’artificio nei neuroni che pogano al ritmo di un caldo allucinante. L’uncino spinge, diventa ariete e sfonda il cranio. Un cratere si apre sulla calotta spelacchiata e lo copro con uno zucchetto. Mi vivo la distruzione con decenza, con un sorriso ebete rivolto ad un’ebete entità. 

Conto i minuti prima di riprendere a vivere. Meno 765....764.... 763.....

martedì 16 febbraio 2010

Bozze

Funzioniamo un po’ come caselle di posta elettronica. Quando incontriamo una persona per la prima volta, automaticamente e senza premere alcun bottone, decidiamo di posizionarla in una delle cartelle disponibili.

Persone indesiderate quelle che a prima vista ci disturbano: ci infastidisce il loro profumo, il taglio degli occhi, la punta del naso, l’abbinamento grezzo tra polsi tozzi e dita delicate.

Persone in arrivo: coloro che si incontrano nei bar, nei club, con i quali si esce per una birra, un caffè o un narghilè. È la cartella più ricca, che se non ci fosse ci sentiremmo soli nei momenti di quotidiana normalità.

Persone inviate: quelle vissute e poi abbandonate, avvolte da ricordi belli e brutti, vittime della guerriglia del tempo.

E poi c’è la cartella speciale, quella che nè google nè hotmail hanno ancora creato. Salviamo con uno slancio emotivo tutti quelli che ci stravolgono i giorni, che ci fanno scrivere parole e che ci consumano i pensieri. É la cartella in grassetto. Quella in corsivo che fa battere di vita le cellule del corpo.

Ma è la cartella bozze quella che oggi sto vivendo, nell’attesa di mettere la prossima e-mail nella casella più opportuna.

sabato 13 febbraio 2010

Scarpe, scarpiera, scappo!

La doccia non ha lavato i miei pensieri sporchi allora sono andato alla conquista della libertà buttando membra e sensi nella mia scarpiera. L’ho svuotata con famelica ira fiutando l’odore forte di piedi, gomma, calzini e chilometri di polvere calpestati e ho guardato le scarpe morte. Rosse, nere, bordeaux perfino blu! Le scarpe usate parlano una lingua che non capisco più: stanno lì a guardarmi, a muovere i lacci sfilacciati ma non so comprenderle. L’arabo occupa tutto lo spazio del mio cervello ed è l’unica lingua a cui so pensare. Ho disposto le scarpe in fila a due a due in tutto l’ingresso. Non le ho contate ma le ho zittite passandole in rassegna. Cromatina, cera, spazzola e tessuto di lana. Le ho pulite tutte, in una giostra di colori e odori, gocce di sudore e pizzichi di sintetico sulla pelle. La foga mi ha rinfrescato come acqua e ha sfocato i brutti pensieri. Le ho lasciate riposare sul mosaico del pavimento e mi ci sono seduto accanto, a gambe incrociate. Soli. Esausti. Le scarpe lucidate donano la serenità che un artista part-time non può dare!

venerdì 12 febbraio 2010

Quando non ti risponde al telefono

e la sera prima ti aveva detto che stare con te era come stare con la sua famiglia, con gli occhi che raccontavano fiori e colori di altri quadri e paesaggi, le mani che passeggiavano docili sugli altopiani del corpo e il rumore che raccoglieva i silenzi salivosi allora, qualcosa non va!
Forse sono le lancette del mio tempo che corrono troppo velocemente o forse sono le sue pulsioni che si raffreddano ad una certa distanza.
Se non ti risponde al telefono si consiglia di spalmare accuratamente con cherosene ed appiccare il fuoco!
Solo così ci si riscalda il cuore.

giovedì 11 febbraio 2010