martedì 27 luglio 2010
Sayyed
sabato 1 maggio 2010
venerdì 30 aprile 2010
Far finta di compiere 38 anni
giovedì 29 aprile 2010
Tempi di silicone
mercoledì 28 aprile 2010
Non leggere fa male
lunedì 19 aprile 2010
giovedì 25 marzo 2010
Pornoshop II
mercoledì 24 marzo 2010
Pornoshop
sabato 20 marzo 2010
a Silvio
martedì 16 marzo 2010
Pugilato
domenica 14 marzo 2010
Profumo di Colonia
mercoledì 10 marzo 2010
Quella sera
domenica 7 marzo 2010
U come Dizionario
Untuoso agg. [der. di unto] 1. Impregnato, ricoperto di unto o di untume. Immerso in parole dolci e umide di pianto e infine scolato in una vasca di aria fredda e ghiaccio. Es.: Era carina fino a diventare, improvvisamente, untuosa. Non ha risposto più ai messaggi. 2. Che ha l’aspetto e alcune caratteristiche dei grassi. Es.: è tanto bello ma unto come un maiale. Un porco, oserei dire! Anzi peggio: con lui non si fanno salsicce!
Unzione [dal lat. Unctio-onis, der. di ungere
Uòmo (ant. o pop. òmo) s. m. [lat. Homo hominis] (pl. uomini) 1.
La pagina del dizionario presenta uno strappo esattamente sulla definizione di “uomo”; una voragine nera che conduce direttamente alla parola “zero”.
venerdì 5 marzo 2010
La dentiera
si scollava dal palato con la pigrizia di un’onda al tramonto mentre Mohammed la penetrava con la formalità di un tedesco in cravatta. Il suo corpo scuro altalenava nei tiepidi umori di Giulia, aggrappata alla vita con le sue mani rugose smaltate di rosso. Era lì, a Sharm Al-Sheikh, alla ricerca di una resurrezione che potesse regalarle ancora qualche sussulto. 62 anni, Lazzaro più che mai in terra d’Egitto, questa volta aveva trovato il vero amore. Mohammed, 27 anni, giovane istruttore di immersione le raccontava dei fondali marini e dipingeva il suo deserto con tutti i colori dei pesci del Mar Rosso. Lei li pescava con la rete delle sue banconote dorate. Nel tentativo di mostrare meno dei suoi anni, Giulia non si accorse del piano che lui non le aveva mai rivelato: partire per l’Italia. Continuava a muoversi sotto i colpi di quell’uomo e non riconosceva la bestia che addentava la sua carne flaccida. Mohammed e Giulia vennero. In Italia. Vissero insieme per qualche mese; poi, un giorno, Mohammed si prese le chiavi di casa e l’accompagnò al cimitero.
giovedì 4 marzo 2010
Di-mendico
Da più di un mese quel letto si era trasformato in una distesa di chiodi. Da quando Sonia si era dissolta nell’inquinamento, le spine dell’abbandono gli pungevano la pelle, la perforavano, la tiravano fino a strappargliela. Un dolore secco e tagliente gli rubava i giorni e il sonno e non sapeva respirare. Alle nove di giovedì sera si tuffò nel marasma delle strade del Cairo e accompagnò il fermo immagine di Sonia in un pub finto europeo. Lo ripose nel guardaroba e cominciò a bere. Un whisky e un rock, una tequila e una danza del ventre, una decina di birre e una pista per le sue gambe sciolte. Bastò uno sguardo ad avvicinare Ladi a Marta. Si strillarono i nomi nelle orecchie e si parlarono con gli occhi. Sonia sgomitava tra le giacche al buio del guardaroba mentre Marta faceva le fusa all’ombra di Ladi. Lui, quello vero, stava immobile al centro della pista sbirciando le braccia che s’intrecciavano e gli umori che si cercavano. Marta afferrò borsa e foulard e uscì dal locale tirandolo per una mano. Montarono su una Mercedes e si fecero corpo unico sul letto di lei. Lingua contro lingua e sesso nel sesso. Violento. Sconsolato. Lo aveva cercato per riempire la sua solitudine mentre Ladi l’aveva sovrapposta con l’immagine di Sonia. Le fece male, la morse, toccò il cielo per un istante e poi ritornò sottoterra. Ricoperto di fanghiglia e pietruzze si rivestì. Solo. Sul comodino un diplomatico e un bambino facevano da cornice a una Marta sorridente e fiera. Si rivestì e uscì. L’aria fresca del Nilo solleticava Zamalek e Ladi s’incamminò verso il ponte. Il vento spingeva i pensieri lontano ma il ricordo di Sonia rimbalzava schiaffeggiando la sua tranquillità. A fatica raggiunse il ponte: le luci delle due rive punteggiavano il letto del fiume, barche illuminate con musica ad alto volume scarrozzavano orde di egiziani poveri, in lontananza il nero dove Ladi desiderò vivere. Si fermò appoggiandosi con i gomiti sul parapetto e una voce di uomo in inglese lo riportò a terra: “Welcome in Egypt!”. Si girò e fu colpito dalla bellezza di Amir, un giovane Tutankhamon, ritornato in vita per donargli ancora vita. Parlarono incamminandosi verso il centro e si ritrovarono, travolti come da un’onda, sul tappeto del salone: il corpo dell’uno intrecciato a quello dell’altro. Sonia osservava Ladi e Amir respirava Marta nel suo appartamento disadorno, ricco di cimeli e di rarità. Il seme di Amir cancellò il profumo di Marta e soffocò le grida di Sonia. Ladi rimase a terra, senza vita, perso nel nero che aveva desiderato. Sentì di essere disteso a due passi dal mare, in silenzio, nel sole spento. Intorno a lui acqua, aria e pace. Per quella sera era riuscito a distruggere il ricordo di Sonia e aveva allontanato i profumi di Marta e Amir.
La mattina accese il sole con l’interruttore del salone e si ritrovò nudo sul tappeto. Sonia lo guardava da un angolo della sua memoria, Marta a telefono col marito in missione e Amir lontano, con tutto quello che le braccia di un giovane egiziano possono rubare.
domenica 28 febbraio 2010
L'amore è
La zia lo aveva elogiato: gran lavoratore, di buona famiglia, un bell’appartamento in un quartiere residenziale del Cairo, mai sposato. La madre l’aveva accettato di buon grado, spinta dal bisogno di diventare nonna. Il padre, dubbioso, era convinto di dover porre fine all’impiccio: Rania, 25 anni, doveva sposarsi! L’ultimo venerdì di marzo avrebbe cullato sul suo grembo la visita del giovane Ahmad accompagnato dai genitori, con il cuore pulsante e una proposta caricata a salve. Rania si era opposta sfoderando l’arma degli studi superiori, di un dottorato e di una vita all’estero ma il padre l’aveva obbligata a indossare l’abito meno appariscente, il velo più decoroso, il comportamento più mansueto ed educato. Ahmad arrivò con le mani piene di dolci e un sorriso impacciato. Si sedettero in soggiorno su bollicine di bibite gassate e zucchero di dolci al miele. Parlarono delle ultime piogge, del caldo improvviso, del governo malato e del traffico infernale. Rania guardò Ahmad che masticava con la bocca aperta e si convinse che non avrebbe condiviso mai nessun letto con quell’estraneo. Lui, invece, 42 anni, sbavava all’idea di baciare quelle labbra rosa e di toccare quella pelle di pesca. Il padre propose il giorno e l’ora del fidanzamento, la dote e le condizioni del contratto. Ahmad accettò con un secco sì, rapito, con lo sguardo fisso sulle caviglie di Rania. Lei si sentì soffocata, si voltò e vide un “Grazie a Dio” a lettere d’oro appeso al muro. Si aggrappò violentemente alla gonna e la tirò su: accavallò le gambe mostrandole agli ospiti. Il padre le lanciò occhiate di fuoco ma lei sbottò: “Non posso sposarti, Ahmad! Io non sono più vergine!”. Ahmad inghiottì il boccone e si voltò verso il padre. “Bene, signori. Il fidanzamento è confermato per giovedì 17 aprile. Venerdì prossimo siete tutti a cena da noi!”. Si alzarono, salutarono cordialmente ed uscirono. Rania rimase lì, immobile sulla sedia. Non parlò fino al 16 aprile. Il 17 morì sposandosi.
venerdì 26 febbraio 2010
Leonardo Due
È nato il 2.2.1972 alle due meno venti di notte e il due è la sua ossessione. Secondo di quattro figli, abita al numero due di via Venti Settembre, la striscia quotidiana del suo reality preferito inizia alle due di ogni pomeriggio, fa due lavori, ha due fidanzate, ha due amici intimi e nelle gare arriva sempre secondo. Che sia tennis o calcio, ping pong o domino, ha sempre qualcuno davanti. Negli anni ha visto migliaia di spalle: solide, mollicce, appesantite, gobbe; superbe, intoccabili come una Monna Lisa al Louvre.
Quel mattino si svegliò alle cinque e venti: era il due aprile 2002. Bevve due sorsi d’acqua e si riaddormentò. Di buon’ora annodò la cravatta intorno al collo, afferrò il passaporto e il CV e si recò all’appuntamento in una grossa compagnia turistica. Aspettò una ventina di minuti e poi fu chiamato dal segretario del direttore. Entrò nell’ufficio e si sedette su una delle due poltrone di fronte al grasso uomo in cravatta. Disse il nome e l’età e fu immediatamente bloccato. “Mi spiace, Signor Due! Abbiamo appena assunto un’altra persona. È arrivato secondo!”. Si alzò, immaginò le spalle smidollate del numero uno, afferrò il tagliacarte e lo infilò al petto del direttore di fronte. Si voltò incurante, serio, con due occhi fissi sulle sue spalle, sicuro di essere stato il primo ad aver sporcato di sangue quella lama d’argento!
giovedì 25 febbraio 2010
Sudo
La pioggia che scende è il sudore di un Dio che ama senza essere corrisposto. Annerisce la volta celeste del suo cielo, stringe i fiocchi di nuvole strizzandole amaramente, serra gli occhi e le ciglia sbattono nel vento sospeso. La pioggia scende. Dio suda.
È pericoloso cadere nella pozzanghera dell’amore.
Si perde la libertà di vivere. Si perde la rotta e tutte le strade portano pioggia.
lunedì 22 febbraio 2010
Autocontrollo
Ho deciso: cancello il suo numero dalla rubrica telefonica così non ho più la tentazione di mandare sms - mi dico. Scorro l’elenco Ab Ah Bar D, la barra rossa evidenzia il nome selezionandolo. Sul display in basso tre porte: opzioni/chiama/indietro. Escludo indietro: in una storia non si torna mai indietro, non c’è tempo per il pentimento o passi per il rimpianto. Escluso chiama, perchè non voglio rischiare di farmi tamburellare i timpani con un tu tu infinito. Passo ad opzioni. Premo e sciolgo un elenco di possibilità. Gli occhi visualizzano elimina scheda. Sul vecchio cellulare era elimina contatto. Stamattina il mio ego è deciso e ostinato. Sa quello che vuole e riconosce il colore del sole. Premo elimina. Il telefonino mi chiede: eliminare tutti i dettagli? Premo sì. Perentorio. La luce del sole non mi acceca. Tic! Non c’è più! Eliminato. Cancellato. Mi sento libero, liberato dall’ossessione. Sorrido incredulo e vincente. Blocco la tastiera senza rimorsi. Via! Lontano!
Lontano dai suoi sms salvati nella casella dei messaggi ricevuti.
Auto/con/vinco
Ho deciso: cancello il suo numero dalla rubrica telefonica così non ho più la tentazione di mandare sms - mi dico. Scorro l’elenco Ab Ah Bar D, la barra rossa evidenzia il nome selezionandolo. Sul display in basso tre porte: opzioni/chiama/indietro.
Escludo indietro: in una storia non si torna mai indietro, non c’è tempo per il pentimento o passi per il rimpianto. Escluso chiama, perchè non voglio rischiare di farmi tamburellare i timpani con un tu tu infinito.
Passo ad opzioni. Premo e sciolgo un elenco di possibilità. Gli occhi visualizzano elimina scheda. Sul vecchio cellulare era elimina contatto. Stamattina il mio ego è deciso e ostinato. Sa quello che vuole e riconosce il colore del sole. Premo elimina. Il telefonino mi chiede: eliminare tutti i dettagli? Premo sì. Perentorio. La luce del sole non mi acceca. Tic! Non c’è più! Eliminato. Cancellato.
Mi sento libero, liberato dall’ossessione. Sorrido incredulo e vincente. Blocco la tastiera senza rimorsi. Via! Lontano!
Lontano dai suoi sms salvati nella casella dei messaggi ricevuti.
venerdì 19 febbraio 2010
Trasposizioni
Mi sono fotocopiato il volto. Ho colorato le rughe con un rosa pallido e ho tracciato fili sottili di barba. Rosa bagnato sulle labbra, pori sdruciti sul naso. Ho poi incollato il foglio sul vetro del mio balcone e l’ho baciato sulla fronte.
Finalmente ho qualcuno da amare.
mercoledì 17 febbraio 2010
762... 761...760...
Il raffreddore è un uncino che si infila nelle narici e ti penetra come radici. Si duplica, si inerpica, vorticoso sulle pareti del naso e traccia rotte brulicanti, formicolose. L’uncino della narice destra è più forte, acido, vince la competizione e, appoggiando i piedi sui peli viscidi, giunge all’altezza dell’occhio. Lo brucia, il liquido evapora e si trasforma in lacrima, l’iride si sfalda a richiamar il contatto della mano. L’indice e il medio strofinano l’occhio, si bagnano mentre l’uncino sale dentro la fronte su per il cranio. Scoppia la testa mentre la palpebra stenta ad alzarsi, fuochi d’artificio nei neuroni che pogano al ritmo di un caldo allucinante. L’uncino spinge, diventa ariete e sfonda il cranio. Un cratere si apre sulla calotta spelacchiata e lo copro con uno zucchetto. Mi vivo la distruzione con decenza, con un sorriso ebete rivolto ad un’ebete entità.
Conto i minuti prima di riprendere a vivere. Meno 765....764.... 763.....
martedì 16 febbraio 2010
Bozze
Funzioniamo un po’ come caselle di posta elettronica. Quando incontriamo una persona per la prima volta, automaticamente e senza premere alcun bottone, decidiamo di posizionarla in una delle cartelle disponibili.
Persone indesiderate quelle che a prima vista ci disturbano: ci infastidisce il loro profumo, il taglio degli occhi, la punta del naso, l’abbinamento grezzo tra polsi tozzi e dita delicate.
Persone in arrivo: coloro che si incontrano nei bar, nei club, con i quali si esce per una birra, un caffè o un narghilè. È la cartella più ricca, che se non ci fosse ci sentiremmo soli nei momenti di quotidiana normalità.
Persone inviate: quelle vissute e poi abbandonate, avvolte da ricordi belli e brutti, vittime della guerriglia del tempo.
E poi c’è la cartella speciale, quella che nè google nè hotmail hanno ancora creato. Salviamo con uno slancio emotivo tutti quelli che ci stravolgono i giorni, che ci fanno scrivere parole e che ci consumano i pensieri. É la cartella in grassetto. Quella in corsivo che fa battere di vita le cellule del corpo.
Ma è la cartella bozze quella che oggi sto vivendo, nell’attesa di mettere la prossima e-mail nella casella più opportuna.
sabato 13 febbraio 2010
Scarpe, scarpiera, scappo!
La doccia non ha lavato i miei pensieri sporchi allora sono andato alla conquista della libertà buttando membra e sensi nella mia scarpiera. L’ho svuotata con famelica ira fiutando l’odore forte di piedi, gomma, calzini e chilometri di polvere calpestati e ho guardato le scarpe morte. Rosse, nere, bordeaux perfino blu! Le scarpe usate parlano una lingua che non capisco più: stanno lì a guardarmi, a muovere i lacci sfilacciati ma non so comprenderle. L’arabo occupa tutto lo spazio del mio cervello ed è l’unica lingua a cui so pensare. Ho disposto le scarpe in fila a due a due in tutto l’ingresso. Non le ho contate ma le ho zittite passandole in rassegna. Cromatina, cera, spazzola e tessuto di lana. Le ho pulite tutte, in una giostra di colori e odori, gocce di sudore e pizzichi di sintetico sulla pelle. La foga mi ha rinfrescato come acqua e ha sfocato i brutti pensieri. Le ho lasciate riposare sul mosaico del pavimento e mi ci sono seduto accanto, a gambe incrociate. Soli. Esausti. Le scarpe lucidate donano la serenità che un artista part-time non può dare!