giovedì 19 novembre 2015

Dio c'è!

Che poi, dopo otto ore circa di lezione, dopo aver conosciuto più di un centinaio di studenti nuovi all’università, dopo aver attraversato in metropolitana e in taxi mezza città, dopo aver sopportato una borsa a tracolla di un quintale, dopo un pranzo in piedi frugalissimo e tristerrimo, dopo aver parlato parlato e parlato, finalmente arrivi al solito posto dove aspetti il taxi che ti riporterà a casa. Sei sull’orlo di un abisso, da lì a pochi minuti potrai lanciarti liberamente nel burrone della libertà, da lì a pochi secondi potrai sprofondare su un sedile e sentirti finalmente libero. Alzi un dito, si ferma un taxi ma il tassista ti insospettisce subito. Maneggia col tassametro, preme diversi pulsanti e capisci, prima ancora di salire, che ti fregherà. Sali e ti dice: “Ciao come stai?”. Lo guardi assente e aggiunge: “Ti conosco, ci siamo già visti prima! Non dimentico mai i miei clienti”. Sorride mentre il suo profumo fortissimo ti annebbia la mente. Dico: “Scusa ma non mi ricordo di te. Prendo talmente tanti taxi!” e mi tuffo sullo schermo del cellulare. Capisce che non ho voglia di parlare. Quindi silenzio per due secondi. Mentre tieni d’occhio il tassametro senti un rumore di denti, saliva e lingua. Mastica una gomma e fa il rumore di quando metti i piedi in un mare di colla. Claksh! Claksh! Claksh! Ti innervosisci ma respiri. Ti accorgi che il cavallino del tassametro corre più del normale e siamo già a 5 pound. Nello stesso posto di solito 3. Cerco di calmarmi. Prende il pacchetto di sigarette e mi dice: “Tu sicuramente non fumi”. “No, non fumo” gli dico “e non dovresti nemmeno tu visto che mi dà fastidio” ma sono stanco e non glielo dico. Odore di zolfo in macchina e del peggiore tabacco dell’universo. Ma mi distraggo con la brezza del ponte. Guardo il tassametro e prego Dio perché non superi i 10 pound. Non ho spiccioli. Ho solo banconote da 50 e una sola di 10 pound. Vorrei essere Silvan e scovare qualche lira in più nella tasca della borsa ma nulla. 10! Solo 10! Svolta a sinistra dopo il ponte e fa un commento volgare su una donna velata che attraversa. Vorrei prenderlo per il bavero e schiaffeggiarlo. Torturarlo mettendogli quella gomma nel culo sbuffandogli fumo negli occhi. Il cavallino corre. Anzi, no! Vorrei essere sul cavallino. Lontano. Corre, svolta, fuma e mastica. E io prego. Mancano 500 metri e il tassametro segna numeri stranissimi: 8 pound e 62. Dio fa che non superi i 10 pound. 400 metri, 8 pound e 93. Dio risparmiami la lite. Mi dirà che non può cambiare 50 pound e si prenderà 20 pound. 300 metri, 9,13 pound. Dio, fa un miracolo. 200 metri 9, 51 pound. Non prego più. Comincio a salire sul rogo da solo. Il fiammifero ce l’ha già e fra poco ci incendieremo in una litigata mai vista. 150 metri 9 pound e 73. Manca poco….non ce la faccio a scendere. Sono stanco. Dio aiutami tu. Arriviamo. 9 pound e 90. Pago. Saluto. Il cavallino si ferma, il rogo svanisce ed io sono finalmente libero. Dio c’è!

mercoledì 3 luglio 2013

Aspettando un colpo di stato


ovvero racconto semiserio di come ci si risveglia nei giorni della “ribellione”.

Ti svegli alle 15:00 perché i nervi non sopportano più le vibrazioni del tuo iPhone violentato dall’ansia di tutti quelli che, attaccati alla tivvù, si chiedono se ti sei arruolato nella gama’a islamiyya o se sei stato rapito da terroristi islamici. Disteso al letto, li tranquillizzi assonnato, leggi vari messaggi e rispondi solo ad alcuni. Intrattieni immediatamente una conversazione con un amico giornalista che – agitato – ti chiede di rilasciare un’intervista sulla situazione. I giornalisti hanno una percezione della realtà molto particolare: hai la sensazione che le loro siano sempre le emorroidi più feroci! Ti stiracchi un po’, passi da whatsapp a facebook cercando di fare una veloce carrellata di ciò che è successo nelle ultime ore, mentre dormivi. Vai in bagno tenendo in mano il pc. È tardissimo, ma ti sembrano le sette di mattina. Dalla piccola finestrella si sente la voce metallica di un telegiornale. Pisci e ritorni alla realtà: tiri lo scarico che si porta via presidenti, scontri, morti e sangue. Appoggi il pc al tavolo del soggiorno e riorganizzi la sala dei bottoni. Computer, casse, caricabatterie pc, cuffie e telefono. Il caffè! Manca il caffè. Ti fai strada tra i piatti sporchi di tre giorni (non c’è stato tempo per lavarli!!) e te ne prepari uno. Nel frattempo fai avanti e indietro – cucina sala bottoni - almeno dieci volte. E ovviamente il caffè si rovescia e ti sporca tutta la cucina. Faceva già schifo! Tanto zucchero perché c’è bisogno di affetto e di nuovo nella sala bottoni. Spalanchi finestra e balcone. Ti affacci con il tuo espresso. Tre bambini gridano “Vattene! Vattene!” (e non è rivolto a te) e dai balconi del palazzo di fronte sventolano alcune bandiere. È l’estate araba, fa caldo, il sole batte e si trastulla con il boato che sale dalla vicina Tahrir (piazza Tahrir, ovviamente. La ‘piazza’ oramai è solo piazza Tarhir). Prima sentivi il rumore del traffico, ora gli slogan la fanno da padrona! Il caffè sotto casa è aperto, lo ‘stiratore’ stira come in una versione shaaby di un racconto delle mille e una notte, macchine parcheggiate in terza fila e voci varie non sincronizzate. Rientri e sorseggi caffè aprendo il link di un breaking news. Il comunicato delle forze armate è slittato e non si sa quando verrà letto. Apri la pagina ufficiale del comandante dell’esercito Al-Sissi (ricorda ‘Via col vento’ o polpettoni americani in bianco e nero) e la foto del suo profilo in Photoshop lo fa sembrare più umano. Decidi di diventare un suo fan. Da obiettore, avevi deciso di mantenere in vita un rapporto ‘emotivo’ solo con tua nipote che lavora nell’esercito italiano (evvabbè, in tutte le famiglie c’è una croce! Claudia ti amo!) e con nessun altro essere avvolto in un’uniforme. Noti che avete già tanti amici in comune (tra cui un ballerino) e il caffè ti sembra già meno amaro. Saluti l’amico giornalista con il quale la conversazione non si era mai interrotta e decidi di andare in bagno. Ovviamente con l’iPhone. In bagno incontri tremiliardi di tweets e ovviamente cominci con il più recente: non manca ahramonline (buongiorno!), ilfattoquotidiano, laura cappon (supersalamualaikom), al-masryal-youm (sabah al-kheir), drbassemyoussef (Hi cute!), shorouknews, boygeorge (WTF?!) e migliaia di altri nomi. In arabo, in inglese, in italiano. Ti rilassi in bagno. Alcuni tweets facilitano l’evacuazione. L’hashtag è lassativo. Ti viene voglia di abbracciare alcuni ‘cinguettatori’ ma in queste condizioni ti limiti a complimentarti con loro nell’etere, senza nemmeno ritwittare. È così poco originale! Ti alzi, torni in postazione, ti arriva un sms dell’ambasciata italiana: speravi fosse la persona che aspetti da un po’. Apri il messaggio. “Atteso peggioramento quadro di sicurezza in queste ore. Evitare spostamenti non indispensabili e luoghi assembramenti. Ambasciata raggiungibile. H24” e poi un numero di telefono. Sorrido. È lo stesso messaggio di ieri. Cambiano alcune parole (la lingua italiana è ricca e chi lavora lì deve pur fare qualcosa, no?) e il maiuscolo che, devo ammettere, ti fa capire che l’Italia si sta prendendo veramente cura di te. In effetti, le istituzioni italiane si rivelano sempre molto pronte e sul fatto. Ti mangi un ‘riso col latte’ mentre fuori elicotteri sorvolano a bassa quota Down Town.  Continui a leggere post e status di amici. Sorvoli quelli di persone che scrivono solo cazzate, le foto di gatti e bambini, i post lunghi tre chilometri in arabo, quelli di spiagge o mare (qui è caldo ma il mare sembra davvero solo un ricordo). Vorresti scrivere qualcosa. In giorni senza moto, in cui sei in qualche modo costretto a rimanere a casa, un like e un commento danno senso all'esistenza. Però non scrivi nulla. Un’amica mi chiede “novità” in privato e le rispondi che stai facendo colazione con Al-Baradei mentre Morsi è di là che prepara una torta di banane”. Intanto ti ricordi che devi pagare l’affitto ma parte una conversazione su fratelli musulmani, opposizione, forze armate, piante e fiori. Un’amica scrittrice ha postato il remix del discorso del presidente egiziano (fatto iersera), divertente. Ritorna il tormentone della nottata. Ricominci a sorridere come la sera precedente. Leggere i commenti in arabo degli egiziani è veramente eccezionale. Un senso dell’umore stratosferico. Sanno ridere anche con il fucile di un cecchino puntato in mezzo agli occhi. Ridi con alcuni post. Ti fanno ribrezzo alcune immagini. Scopri tra un sorso e l’altro che sono morte più di 20 persone negli scontri della notte. Un minuto di silenzio. Hai bisogno di aria. Esci sul balcone. Poi rientri perché ti chiamano dall’Istituto di Cultura: “Domani non si lavora. Ieri hai lavorato?”. Una dichiarazione logica e una domanda bislacca insieme. Ti chiedono se hai lavorato come se non lavorassi per loro ma per qualcun altro. “Certo che ho lavorato”. 4 ore di conversazione (corsi di conversazione, appunto) e ovviamente 4 ore di rivoluzione. Avevi preparato tante attività e una canzone ma uno studente aveva scaricato un articolo dell’Ansa. “Domani non si lavora” dunque e scrivi una mail collettiva agli studenti. Poi ritocchi una foto su instagram e la pubblichi anche su facebook. Dovresti fare pulizie: c’è un deserto sulla scrivania. Dovresti rileggere un malloppo di cose ma vedi una foto con carri armati asserragliati intorno all’edificio della tv e pensi a un amico che lavora lì. Verifichi la notizia. Fai un controllo incrociato. Gli scrivi su facebook e in arabo gli chiedi dove sei, se hanno chiuso l’edificio e bloccato ogni tipo di attività. Conferma. Dice di essere al Maspero (sede Tv di stato) ma se ne sta andando. Dici che se vuole, può venire a casa, per qualsiasi motivo e a qualsiasi ora. Ti ringrazia, ti dice che sei “Il Qarm più dolce del mondo” (ammesso che ce ne siano altri di Qarm Qart). Gli egiziani sono davvero un cuore di panna. Anche un semplice “ciao” diventa un babà senza rum (rigorosamente vietato dall’Islam). Ancora post, foto e video. Spari in lontananza.  Fuochi d’artificio in piazza Tahrir, sicuramente. In strada un via vai di macchine e persone. Gruppi muniti di bandiere, fischietti e cartellini rossi con la scritta “vattene” in direzione della piazza. Sono un esercito di arbitri di calcio. Ricordano il San Siro, la Pasquetta italiana e le scampagnate sotto il primo sole d’aprile. Grande energia, sorrisi luminosi. Intonano slogan e dalle finestre e dai balconi gente curiosa. Vedi così le donne in deshabillé, grossi pezzi di carne solitamente nascosti da lunghe vesti o carni gentili che attirano gli occhi curiosi. Pensi che le egiziane sono toste. Non hanno paura, non si lasciano intimorire dagli stupri di piazza. Scendono in strada, manifestano e gridano. Le donne impressionano per forza e determinazione. Il loro manifestare è ‘romantico’, a trapano, ariete, fucsia, diverso da quello degli uomini, più fisico, sessuale, vulcanico, verde acido. Rientri. Parli con Kareem. Non i soliti discorsi, ma i possibili scenari post-comunicato-forze armate. Parli e controlli i post. Come quando da bambino aspetti la befana e ogni due minuti ti alzi dal letto per controllare se è arrivata. Sono passate due ore. Sono le 17:00. Fra poco l’ultimatum se non ci saranno altre sorprese. È un risveglio strano ma normale. L’adrenalina alle stelle e nei piedi un’energia incommensurabile. Fai colazione con ansia ed entusiasmo. Il caldo diventa sopportabile. Poi d’un tratto ti giri e ti accorgi che la storia è lì, dietro l’anta del balcone. La guardi negli occhi, corri per afferrarla ma sfugge, come in un guardia e ladri improvvisato. Ti alzi, la insegui e dal balcone la vedi aggrapparsi alla bandiera dell’Egitto e correre orgogliosa con l’entusiasmo di un ragazzo su una moto. E da dentro, l’iPhone ti fa ti ti ti ti ti. Un amico ti dice che Morsi è agli arresti domiciliari. 

martedì 8 gennaio 2013

Gloria


Dalla breve passerella intravedo l’acqua del Nilo placida e nera. La cancello con i miei tacchi 12 che calpestano una moquette color carminio a fiori dorati. Aprendomi la porta, un cameriere mi fissa. Gli lascio un mezzo sorriso ed entro nella sala ristorante di un barcone elegante: decine di persone che si scambiano gli auguri di Natale e si lanciano sui tavoli alla ricerca di un posto per la serata. I tavoli addossati, difficile passare. A. mi precede, si fa strada e come un Mosè mi lascia attraversare la sala. Arriviamo al tavolo e saluto i parenti. Auguri, baci, parole. A. si siede prima di me e ci faccio caso. Dopo tre anni di matrimonio il nostro rapporto è diventato più essenziale. Le parole romantiche, la galanteria e la tenerezza dei primi giorni sono svaniti e ora tutto è più freddo. Lo capisco e sorrido, sfilandomi la pelliccia. Il seno strizzato da una maglietta aderente,  la vita sottile e i fianchi larghi inguainati in pantaloni bianchi.
Sono un fiocco di neve ghiacciato. 
La serata va. Si cena. La musica è assordante, impossibile parlare. Ad un tratto la voce distorta di un cantante annuncia ‘la ballerina’: “Lunaaaaaaaaaa Luna Luna Luna a a a a “.  
Al centro della sala si crea un’arena: suonatori di tamburi e uomini seduti in cerchio sulle sedie o per terra. Le donne restano sedute ai tavoli. Nessuna in piedi. 
Gli uomini ai tavoli si alzano in piedi. Entra Luna, chiara e in carne. I rotoli della pancia vibrano a suon di musica e i capelli cominciano ad attaccarsi al collo lucido. Ha un costume da ballo rosso, tutto brillantini e fiocchi dorati. Un piercing all’ombelico e un rossetto dello stesso colore dello smalto. A. è accanto a me, in piedi. Batte le mani con una foga indescrivibile. Gli occhi fissi sul bacino della ballerina. Lei ammicca agli spettatori eccitati, è un continuo occhiolino: occhio destro, occhio sinistro, occhio destro, occhio sinistro. Si dimena. Balla. Suda. 
A. Suda, non sorride ed entra tra le cosce di quella donna a cercare vita. Cerca la gloria. Mi aggrappo al suo braccio con la mano destra. Non mi guarda e mi allontana infastidito. Lui sorride alla ballerina e io mi alzo. Mi faccio strada tra le braccia che applaudono e tra le urla infuocate. Vado fuori. Mi tiro indietro i capelli con un movimento secco e con la coda dell’occhio lancio un’occhiata vogliosa al cameriere che si tasta il pacco. Sorrido e mi segue in bagno. Entriamo e usciamo dopo poco. La ballerina continua a ballare. Torno al tavolo e non mi siedo. Resto accanto ad A. 
Batto le mani e ancheggio al ritmo dei tamburi. Amo il Natale. Amo mio marito. 


lunedì 7 gennaio 2013

Buonismo


Quest’anno la Befana non si è fatta vedere da queste parti - eccetto l’ultimo discorso del presidente siriano Bashar al-Asad che solo sui media italiani si chiama Bashir! - ma ha frustato l’aria con la sua scopa sconvolgendo il Cairo con un cocktail di vento e pioggia che ha spazzato via il pacchetto tombola-palline-regali-lenticchie-biancheria.intima.rossa-calze.piene.di.carbone. Ha lasciato solo una spessa coltre di polvere su cose e case, macchine e alberi, silenzio e voglia di buoni propositi. 
Quando le lucine si spengono è il momento per una letterina da inizio anno, da ‘incrociamo le dita perché quest’anno sia diverso”. E allora mi sono messo pensare a quell’entità che ognuno maschera come vuole appuntando a mente tanti piccoli desiseri: un iPad, un appartamento, un viaggio, un amore. Chissà! 
Mentre pensavo hanno bussato alla porta. 
«E tu chi sei?»
«Emme.»
«Quanti anni hai?»
«Nove.»
Da dietro è spuntato il fratellino maggiore che avevo incontrato prima. Anche lui aveva poco più di nove anni quando mi sono trasferito in quest’appartamento ed ora è un ometto, sorride come un uomo di mondo e ti parla come se avesse cinquant’anni. 
Tutti i pomeriggi raccolgono la spazzatura del mio sporco condominio.
«Freddo oggi, eh?»
«...» non risponde. Si vergogna. 
Gli ho sorriso e chiudendo la porta gli ho scritto una letterina.
Vorrei una casa nuova dove non si sente la puzza di spazzatura, vestiti puliti e un bagno caldo. Vorrei una scuola e dei fogli bianchi su cui disegnare. Vorrei correre dopo aver fatto i compiti ed essere sgridato da mia madre per aver fatto tardi. Vorrei sbucciarmi le ginocchia, cadere, rialzarmi e riprendere a correre. Vorrei lavarmi le mani prima di mangiare e mangiare prima di addormentarmi. Vorrei un giocattolo, un paio di scarpe, un cappotto”.
Ho piegato la letterina e l’ho imbucata nella buca dei desideri. 
Poi ho scaraventato via il pensiero e mi sono appuntato un ps importante su un post-it.

Stamattina non trovo più il post-it. 



venerdì 4 gennaio 2013

Becchi


La primavera araba ha riversato per le strade del Cairo siriani, libici, yemeniti e rondini. Li vedi, li noti, li riconosci dai vestiti, dagli accenti, dal modo di camminare. Le rondini invece volano. Ne ho viste cinque oggi nel breve tragitto che ho percorso a piedi dalla stazione della metropolitana a casa mia. Erano le tre di pomeriggio e il cielo era una pennellata di foschia. Volavano. Velocissime. Un movimento malato, nevrotico, lanciate verso un obiettivo da colpire: una base militare o una postazione di ribelli. Volavano basse, in slalom tra le persone e le macchine. Mi son dovuto piegare due volte per evitare che un becco mi perforasse un occhio. La primavera araba ha portato al Cairo rondini che sono scese in strada per protestare. Chiedono aria pura. Chiedono vita.

Stasera è venuto a trovarmi un amico. Mi ha detto che a volte gli manca l’aria. Gli sembra di impazzire in questo nuovo Egitto. Andandosene, barcollava, a zig zag nel corridoio, come una rondine. Ma lentissimo. Si è aggrappato alla maniglia della porta e, prima di uscire, mi ha confidato che da qualche mese prende anti-depressivi. È uscito. L’ho cercato dalla finestra ma non l’ho visto. Negli occhi il becco di una rondine.



sabato 29 dicembre 2012

Tanfo



Salgo le scale di un palazzo buio del centro. Di corsa. Gradini sporchi, stretti, scheggiati, letti per gatti senza padrone. Faccio le scale sempre di corsa da quando abito in quell’appartamento di Roda per attraversare il più velocemente possibile quello spazio tra la strada e la mia casa che riserva sempre scene e odori disgustosi. Talvolta rientrato in casa, il tanfo di pipì di gatti mi riempie ancora le narici. Mi precipito a bruciare incenso per sentirmi di nuovo un uomo. Pulito. 
Busso al portone. Il campanello si incanta e ripete all’infinito uno strano did don che Enne, dopo aver aperto la porta, blocca con un dito e un sorriso. Mi parla con un dialetto nuovo mentre entro. L’ingresso è buio e sui divani accostati alle pareti spoglie stanno seduti tanti giovani, ognuno con un computer sulle gambe. Fa caldo, sudo immediatamente mentre saluto tutti stringendo loro la mano. È un altro mondo. Di colpo pesante. Desolato. Isolato. Son qui per la prima lezione di italiano ad un gruppo di ragazzi. Entriamo in classe, un soggiorno che dà su una strada rumorosa. Mi appoggio all’estremità del tavolo e l’altra salta su, come in un numero da circo. Enne, il padrone di casa, blocca con un pugno tavolo e posacenere. Ridiamo in silenzio e decidiamo di aspettare chi arriverà in ritardo. 
Al Cairo ognuno ha il suo tempo.
“Io sono Carmine. E tu?” 
“Io sono Bi. Di Damasco. Son qui da 4 mesi”.
“Studi?”.
“No, aspetto. Voglio tornare a casa”.
“E tu come ti chiami?”
“Emme.”.
“Lavori?”
“No. Non faccio niente. Non trovo lavoro ma non importa. Sono qui solo di passaggio. Fra un po’ torno inshallah. Solo un anno e poi mi laureo”.
Mi siedo. Mi mancano le forze. Come se il tanfo di gatto mi soffocasse. Non respiro. Cerco di aggrapparmi a Bi che mi guarda assente, serio. ‘Oggi comincio il corso di italiano più importante della mia vita’ reagisco e mi alzo. Cerco la forza più travolgente dei miei giorni e stravolgo i minuti di due intere ore. Regalo due ore piene ad un gruppo di ragazzi siriani scampati alla guerra. Due ore che scartiamo come un regalo di Natale. Alla fine sono sudato, come quando in sogno corro chilometri e chilometri inseguito da un mostro. Guardo Bi che ha un’espressione più addolcita ma tiene la testa piegata su un foglio. C’è scritto ‘Io sono siriano e io sono di Damasco’. Sul foglio una casa con un fiore davanti al portone.


venerdì 21 dicembre 2012

Arcobaleni


Alcuni egiziani per me sono come gli arcobaleni. Quando li vedi per la prima volta  ti avvicini cercando di toccarli ma sfuggono. Non ci sono più. Mi è successo spesso, anche altrove. Ma qui quando un arcobaleno scompare, te lo ricordi per sempre perché piove poco. Quasi mai.
M. è tornato l’altra sera. Mi ha chiamato e mi ha trovato malatissimo, avvolto in una coperta di Emirates Airlines, imbacuccato come un Babbo Natale. A telefono mi chiede come sto e dopo mezz’ora me lo ritrovo a casa con succhi di frutta e vitamina C in dono. 
É un re magio. Un regista. Un pazzo. Dorme ovunque anche solo per due minuti. Gira il mondo saltellando da un Festival del Cinema all’altro. Ha cominciato con Cannes. La prima volta compilammo insieme i moduli per la richiesta del visto. Da allora viaggia, incontra la crème del jet set egiziano ed arabo ma è rimasto identico. Sempre lo stesso. 
Mi mostra alcuni video, ridiamo. Poi la foto. La foto della sede di Al-Jazeera che dà su piazza Tahrir. La sede di Al-Jazeera in fiamme. Fumo e spettatori assenti davanti a quel fuoco come davanti ad un servizio giornalistico alla tv.
M. potrebbe vantarsi di aver conosciuto Laila ‘Elwi, di aver passeggiato per le vie di Dubai con Nelly Karim e di aver bevuto un caffè con Ahmad Helmy ma quella sera si è solo vantato degli 871 ‘share’ che ha raggiunto quella foto su Facebook.
Stamattina mi son svegliato alle 9. Non sto ancora bene. Sono rimasto sotto le coperte. Il freddo al Cairo è la lama di una spada in mano a un salafita. Ho sognato quelle fiamme che avvolgevano prima la casa del mio vicino e poi la mia  in Italia. Ero lontano, riprendevo tutto con il mio telefonino, preoccupato. Mia madre? Mio padre? Dove saranno? Mi sono svegliato. Disperato. Ho cercato su internet il significato del mio sogno. Ho letto: “Se si dispone di ricorrenti sogni della vostra casa di famiglia a fuoco, suggerisce che non si è ancora pronti per il cambiamento o che si lotta contro il cambiamento. In alternativa, mette in luce la passione e l’amore di chi ti circonda”. 
M. è sparito di nuovo. Non piove, mi tocca attendere ancora prima di cambiare e troppe spade mi circondano.