giovedì 25 marzo 2010

Pornoshop II


Le stavo dentro per riempirla col mio desiderio. Andavo su e giù, su e giù, su e giù sulle sue alture vergini senza guardarla, senza nemmeno toccarla. Rasha era lì, immobile, insensibile ai miei colpi di bacino e al mio sudore liquido. Avevo atteso a lungo un letto e una moglie ma non avevo messo in conto la bravura delle prostitute. L’ultima si muoveva sinuosa nei miei occhi serrati mentre il corpo di Rasha la teneva legata, paralizzandola. Solo alla fine, con un guizzo quasi bestiale, il fantasma della prostituta è riuscita ad aggrapparsi al filo del mio orgasmo tirandolo ed io mi sono sciolto in sperma e solitudine, supino accanto a Rasha con gli occhi fissi sul soffitto della stanza, fredda come una bambola gonfiabile. 

mercoledì 24 marzo 2010

Pornoshop

Mohammed si muoveva addosso a me come un cane in calore. Le mani appoggiate sul materasso, disteso a coprirmi come una carta carbone: i miei occhi chiusi sentivano la sua ombra nera nella penombra della camera da letto. Rimanevo immobile ai colpi secchi del suo bacino: su e giù, su e giù, su e giù come la lama che da bambina mi aveva fatto piangere chilometri di lacrime. Ero lì, senza lacrime, a non provare nessun tipo di grazia: avevo atteso per anni il primo rapporto sessuale e ora, sotto di lui, ferma, a pregare Dio che godesse il prima possibile. Ho aperto gli occhi per un istante e ho visto il piacere sul viso e non nei suoi occhi serrati. Lui era dentro di me ed io distante litri e litri di mare dal suo sudore caldo.
Di colpo un gemito di piacere l’ha staccato dal mio corpo, come la lama che mi staccò il piacere tra i pianti di bambina. 
Stamattina Mohammed ha sposato una bambola gonfiabile.

sabato 20 marzo 2010

a Silvio


Apro il portone di casa e mi investe un sibilo di fischietti da arbitro. Di colpo mi ritrovo nella curva nord della grande Roma eppure sono solo le 11 di mattina ed io fuori per la rituale passeggiata del sabato: colazione al bar, giornale, mezz’ora di panchina, libreria, da Mario il fioraio e da Gino il pescivendolo.  Dall’uscio del portone osservo Piazza San Giovanni agghindata per un primo maggio albino: un mare di bandiere bianche, azzurro pallido e blu scuro, visi sorridenti e un palco con un simbolo gigante del Pdl. Chiamo Sara, penso, e le dico di affacciarsi alla finestra. Frugo nelle tasche alla ricerca del cellulare ma non lo trovo. Una mano mi afferra per il bavero e mi scaraventa nel fiume di persone rivolte verso il palco. Polpastrelli animosi premono sulle mie spalle e mi sento spinto da una forza diabolica, mentre foulard svolazzanti e cappellini col simbolo del Pdl in miniatura mi prudono gli occhi. Cerco di tornare indietro ma mi abbraccia uno striscione azzurro tenuto da decine di giovani ben vestiti che intonano l’inno di partito. Saraaa! strillo, sperando di vederla affacciata alla finestra che oramai è un puntino nel palazzo alle mie spalle. I fischi mi assordano, le bocche diventano caverne, il bastone di una bandiera s’intrufola tra le gambe e mi buca i pantaloni. Mi solletica l’ano, con violenza! Mi sento male! Un vecchio sdentato si avvicina e ride. Il bastone sale, lo sento dentro, anguillesco. Saraaaa! urlo, ma la folla m’inghiotte e la musica altissima canta Meno male che Silvio c’è! Il bastone sale, sale, mi buca le budella, si aggrappa alla trachea. Saraaaa! Meno male che Silvio c’èèèèèèè! Un dolore atroce mi sconquassa la carne, sento la pelle del viso tirarsi, Silvio c’èèèèè, una bandana mi cattura la testa, i capelli si tingono di henna, ho i gemelli ai polsini, Saraaaaaa!!!!! Il bastone mi spacca i denti da dentro, meno male che Silvio c’èèèèèèè……noooooo….. mi strappa le labbra e il sangue mi sgorga dal culo, saraaaaaa……..c’èèèèèèèè! Mi sveglio! Sgrano gli occhi e scorgo Sara rannicchiarsi sotto il lenzuolo. Mi tocco la bocca, i denti sono interi. Anche oggi, da quando Silvio c’è, ringrazio il cielo di non vivere in Italia. 

martedì 16 marzo 2010

Pugilato

Mi sono fermato all’incrocio tra via Abd Al-‘Aziz Al-Sa‘ud e una strada che non mi ha mai voluto dire il suo nome. Sono come al solito in ritardo: ieri sera mi sono appisolato davanti alla tv tra le 9 e le 10 e da lì in poi mi sono trasformato in radar fino alle tre di mattina. Con gli occhi ancora appannati dalla luce accecante del sole, respiro l’odore fresco dello smog e mi abbandono al carillon dalle macchine che mi sfrecciano davanti, da sinistra verso destra. Chiederei volentieri un passaggio a quel povero asinello che slitta sull’asfalto ma non è chic arrivare a Zamalek in carretto. Così ho fermato un taxi bianco: sono i miei preferiti perché hanno il tassametro e non rischio di litigare già di buon’ora. Salgo e senza sorridere chiedo affermativo: “Zamalek?!”. L’autista farfuglia insha’allah, mi spia dallo specchietto retrovisore e, più abile di un prestigiatore da strada, alza il volume dell’autoradio. Mi perfora le orecchie la voce di uno sheikh musulmano che salmodia chissà quale sura del Corano. Gli occhi si spannano e le orecchie si raddrizzano. Non mi va di farmi violentare di mattina presto, ho la carne morbida e il sapore delle lenzuola ancora troppo fresco. Mi obbligo a chiedergli di abbassare il volume e lui lo fa: da 22 passa a 20. E’ ancora troppo forte per me e penso che forse sia il caso di scendere. Mi aggrappo ai manici della mia borsa ma la zavorra mi tiene saldo al sedile: non ce la faccio a muovere le chiappe. Rimango e tossisco con forza, ripetutamente. Quella tosse artificiale che chiede attenzione. Lui non me ne dà. Nemmeno mi spia. Allora apro la borsa e afferro l’ipod. Lo accendo. Con la saliva grondante,  corro alla ricerca di quella traccia. “Ma dove l’ho messa, diavolo!?” Erre, Radiohead, Rhonda Byrne, Rino Gaetano, Sacha Distel, Sade....eccola! Clicco ancora. Ok. Alzo il volume. Play. La voce che recita il salmo fuoriesce scandalosamente alta, sbatte contro i vetri, arriva allo specchietto retrovisore e si riflette perforando le orecchie del tassista. Mi guarda per la prima volta, con tutti e due gli occhi. Rallenta e si guarda intorno. Lo fisso, ci fissiamo. La voce dello sheikh si scontra con la voce del prete. Forti, divini. Entrambi. Il tassista si avvicina alle corde del ring, prepara il destro e alza il volume fino a 34. Lo sheikh sovrasta il prete, un allah domina dio mentre il mio pollice trema come quello del pilota che sganciò la bomba di Hiroshima. Mi restano ancora 10 millimetri di volume. Alzo? Non alzo? Alzo! Il salmo salta, il tassista frena. Si gira, mi guarda. Spegne l’autoradio e ingrana la prima. Ripartiamo mentre io clicco su pause. Cerco un’altra traccia... Mozart. Dal ponte di Manial a Zamalek ascoltiamo  musica classica in religioso silenzio. Allah e Dio hanno accompagnato il nostro cammino fino a quando ho pagato, salutato, sorriso e stretto la mano al tassista. Scendendo ha riacceso l’autoradio e ha alzato il volume al massimo. Mi ha fatto l’occhiolino ed ha sgommato. A dieci metri un ingorgo. Si è fermato mentre io mi sono incamminato in una traversa di via Gezira. Da lontano lo sheikh mi chiamava ma io ho messo le cuffie ed ho ripreso a dormire. 

domenica 14 marzo 2010

Profumo di Colonia

Le lacrime mi accecano e non vedo più la finestra che guarda la strada. Sulle tende color crema mi rifletto giovane, all’età di nove anni, eccitato nella otto e cinquanta blu di mio padre, arrivato a Colonia dopo ore lunghissime di viaggio. Non mi ricordo già più del paesino ai piedi del Monte Carmelo quando ricomincio a vivere e giocare con bambini dai capelli quasi bianchi che masticano una lingua aspra. Mi vesto di una vita nuova nel buio del mio studio e divento un ragazzo che non ama la scuola, adora le macchine e corre. Corre con le scarpe da ginnastica sempre pulite perché gli sembra di volare e di poter arrivare prima verso una vita normale. Dopo le medie e le superiori decide di lavorare come giardiniere perché dalle piante assorbe la linfa d’amore che poi trasmette a sua moglie e ai suoi figli. Una lacrima salta giù su una guancia e col braccio destro evito la frana liquida. Sul braccio rimane attaccata la mia vita tedesca e comincio a respirare ancora un’altra vita. Dopo il liceo scientifico, faccio medicina e vado in giro per le chiese d’Italia con in mio gruppo parrocchiale cantando Allelluja e invocando il Padre Nostro. Poi mi specializzo in ginecologia e mi innamoro di Giulia che mi regala due splendidi figli. Marcello che ora fa l’asilo e Mirka che fa la seconda elementare. Nel fine settimana andiamo in campagna, a casa di mia madre, che puntualmente nasconde nelle mani dei bambini due biglietti da cinque euro accompagnandoli con un immancabile “Compratevi un quaderno o un gelato, figli miei!”.
Qualche vita fa ero così, prima di pulirmi le lacrime con il braccio destro e prima che le tende ricominciassero a colorarsi di crema. In questa vita, invece, scrivo.

mercoledì 10 marzo 2010

Quella sera

fluttuava nella penombra del suo appartamento sul Nilo. Galleggiava sull’acqua del fiume, riflessa oltre il vetro del balcone mentre l’aria gli scorreva nelle vene. I sorrisi si scollavano lentamente dalle labbra e si aggrappavano come muschio alle pareti dei mobili. Stelle marine brillavano nei suoi occhi e cavallucci di gioia gli sfioravano la pelle, solleticandola. Volava! Volava nell’acqua con le emozioni in subbuglio senza la gravità dei pensieri. Sbatteva contro le sedie, spostava le lampade verso il soffitto senza paura: sopra la testa una candela bruciacchiata, cuscini rossi e blu e libri a forma di uccelli. Scansò la lampada a palla, accarezzò una pianta e col piede sinistro s’impiglio in una catenella d’argento. Tirò. Tirò. Il tappo venne su e l’acqua colò come un mulinello inferocito. Bastò un secondo di silenzio per trovarsi nudo e solo sulla grata dei suoi giorni normali.

domenica 7 marzo 2010

U come Dizionario

Untuoso agg. [der. di unto] 1. Impregnato, ricoperto di unto o di untume. Immerso in parole dolci e umide di pianto e infine scolato in una vasca di aria fredda e ghiaccio. Es.: Era carina fino a diventare, improvvisamente, untuosa. Non ha risposto più ai messaggi. 2. Che ha l’aspetto e alcune caratteristiche dei grassi. Es.: è tanto bello ma unto come un maiale. Un porco, oserei dire! Anzi peggio: con lui non si fanno salsicce!

Unzione [dal lat. Unctio-onis, der. di ungere , part. pass. unctus] 1. L’azione di ungere e il fatto di ungersi di venire unto con oli o con altre sostanze grasse, come le bugie, le ipocrisie, i finti sorrisi, le lacrime da coccodrillo e i falsi complimenti. Es.: Sapeva che quella sarebbe stata l’ultima cena, l’estrema unzione di una storia mai iniziata e già finita. 2. In varie religioni, u. rituale, praticata a persone (e anche ad animali) in riti con fini diversi, sacrificali, funebri, di consacrazione ecc. Es.: Quella sera si stava sacrificando anima e corpo in quel letto sconosciuto e freddo, tra gemiti e olezzi di vomito. Si lasciava ungere la pelle dalla pelle, ignaro che quell’unto sarebbe stato fiele nei giorni a venire. 3. Untuosità; servilismo ipocrita. Es.: Gli aveva chiesto di abbracciarla. Lui, stupido, si era stretto al niente, annullandosi.

Uòmo (ant. o pop. òmo) s. m. [lat. Homo hominis] (pl. uomini) 1.

La pagina del dizionario presenta uno strappo esattamente sulla definizione di “uomo”; una voragine nera che conduce direttamente alla parola “zero”.

venerdì 5 marzo 2010

La dentiera

si scollava dal palato con la pigrizia di un’onda al tramonto mentre Mohammed la penetrava con la formalità di un tedesco in cravatta. Il suo corpo scuro altalenava nei tiepidi umori di Giulia, aggrappata alla vita con le sue mani rugose smaltate di rosso. Era lì, a Sharm Al-Sheikh, alla ricerca di una resurrezione che potesse regalarle ancora qualche sussulto. 62 anni, Lazzaro più che mai in terra d’Egitto, questa volta aveva trovato il vero amore. Mohammed, 27 anni, giovane istruttore di immersione le raccontava dei fondali marini e dipingeva il suo deserto con tutti i colori dei pesci del Mar Rosso. Lei li pescava con la rete delle sue banconote dorate. Nel tentativo di mostrare meno dei suoi anni, Giulia non si accorse del piano che lui non le aveva mai rivelato: partire per l’Italia. Continuava a muoversi sotto i colpi di quell’uomo e non riconosceva la bestia che addentava la sua carne flaccida. Mohammed e Giulia vennero. In Italia. Vissero insieme per qualche mese; poi, un giorno, Mohammed si prese le chiavi di casa e l’accompagnò al cimitero.

giovedì 4 marzo 2010

Di-mendico

Da più di un mese quel letto si era trasformato in una distesa di chiodi. Da quando Sonia si era dissolta nell’inquinamento, le spine dell’abbandono gli pungevano la pelle, la perforavano, la tiravano fino a strappargliela. Un dolore secco e tagliente gli rubava i giorni e il sonno e non sapeva respirare. Alle nove di giovedì sera si tuffò nel marasma delle strade del Cairo e accompagnò il fermo immagine di Sonia in un pub finto europeo. Lo ripose nel guardaroba e cominciò a bere. Un whisky e un rock, una tequila e una danza del ventre, una decina di birre e una pista per le sue gambe sciolte. Bastò uno sguardo ad avvicinare Ladi a Marta. Si strillarono i nomi nelle orecchie e si parlarono con gli occhi. Sonia sgomitava tra le giacche al buio del guardaroba mentre Marta faceva le fusa all’ombra di Ladi. Lui, quello vero, stava immobile al centro della pista sbirciando le braccia che s’intrecciavano e gli umori che si cercavano. Marta afferrò borsa e foulard e uscì dal locale tirandolo per una mano. Montarono su una Mercedes e si fecero corpo unico sul letto di lei. Lingua contro lingua e sesso nel sesso. Violento. Sconsolato. Lo aveva cercato per riempire la sua solitudine mentre Ladi l’aveva sovrapposta con l’immagine di Sonia. Le fece male, la morse, toccò il cielo per un istante e poi ritornò sottoterra. Ricoperto di fanghiglia e pietruzze si rivestì. Solo. Sul comodino un diplomatico e un bambino facevano da cornice a una Marta sorridente e fiera. Si rivestì e uscì. L’aria fresca del Nilo solleticava Zamalek e Ladi s’incamminò verso il ponte. Il vento spingeva i pensieri lontano ma il ricordo di Sonia rimbalzava schiaffeggiando la sua tranquillità. A fatica raggiunse il ponte: le luci delle due rive punteggiavano il letto del fiume, barche illuminate con musica ad alto volume scarrozzavano orde di egiziani poveri, in lontananza il nero dove Ladi desiderò vivere. Si fermò appoggiandosi con i gomiti sul parapetto e una voce di uomo in inglese lo riportò a terra: “Welcome in Egypt!”. Si girò e fu colpito dalla bellezza di Amir, un giovane Tutankhamon, ritornato in vita per donargli ancora vita. Parlarono incamminandosi verso il centro e si ritrovarono, travolti come da un’onda, sul tappeto del salone: il corpo dell’uno intrecciato a quello dell’altro. Sonia osservava Ladi e Amir respirava Marta nel suo appartamento disadorno, ricco di cimeli e di rarità. Il seme di Amir cancellò il profumo di Marta e soffocò le grida di Sonia. Ladi rimase a terra, senza vita, perso nel nero che aveva desiderato. Sentì di essere disteso a due passi dal mare, in silenzio, nel sole spento. Intorno a lui acqua, aria e pace. Per quella sera era riuscito a distruggere il ricordo di Sonia e aveva allontanato i profumi di Marta e Amir.

La mattina accese il sole con l’interruttore del salone e si ritrovò nudo sul tappeto. Sonia lo guardava da un angolo della sua memoria, Marta a telefono col marito in missione e Amir lontano, con tutto quello che le braccia di un giovane egiziano possono rubare.